Einstein e il sonno della ragione. La genesi di Nimrod

Gli ultimi due post (questo e questo) li abbiamo dedicati al sogno di una torre di Babele che è duro a morire, perché dura a morire è una volontà di sfida che la creatura lancia al creatore. Sogno e bisogno antico, tanto che la Bibbia ci narra di Nimrod, colui che fu l’artefice della Torre di Babele.

Essa fu realtà o mito? la Bibbia narra l’episodio pescando dal suo fantastico o riporta una fantastica realtà di fatti? Sinora, credo, tutti siano concordi nell’affermare che è la realtà, sì, ma la realtà del mito per cui Babele è solo sinonimo di confusione e nient’altro.

Tuttavia, al di là del mito o della realtà, c’è un modo per venire a capo della questione: farsi umilmente due conti alla luce di una cronologia che sinora non ci ha tradito: la nostra, capace, spesso, di venire a capo di questioni ben più spinose di una torre, per quanto famosa.

Infatti, noi abbiamo a suo tempo affrontata la genealogia lucana, raccolta nell’omonima categoria, e siamo giunti, ricorrendo a un copia e incolla, alla conclusione che:

  • Adamo/Nochè (3923 A.M-2863 A.M) per un totale di 10 generazioni, per cui (3923-2863) : 10  = 106, cioè una generazione conta 106 anni.
  • Per il periodo Nochè-Abramo (2863 A.M.-1975) 888 anni (888 ghematria di Ἰησοῦσ, lo abbiamo visto qui) diviso le dodici generazioni che intercorrono dà che ogni generazione segna 74 anni esatti.
  • Per il periodo Abramo-Davide (1975 a.C.-989 a.C.) 17 generazioni, comprendenti anche il ramo materno, per un totale 986 anni che segna per ciascuna generazione di 58 anni esatti.

La lista comprenderebbe anche il periodo Davide-Gesù, ma non è importante al momento, perché tutto si svolge da Davide ad Adamo.

Adesso è importante citare wiki, che a sua volta cita il Libro dei Giubilei, in cui si legge che fu con il Patriarca Ragau che s’iniziò la costruzione della Torre di Babele. La notizia è scarna, quasi un’eco perché non offre nessun modo per datare l’evento.

Noi, però, siamo in possesso delle coordinate cronologiche necessarie per farlo, perché quel Patriarca è compreso nella genealogia lucana, esattamente quattro generazioni prima di Abramo procedendo da Adamo come si può vedere. Infatti

Sapendo già (vedi sopra) che una generazione da Davide ad Abramo conta 58 anni esatti e sapendo che Davide fu unto re nel 989 a.C. otteniamo che le 17 generazioni comprese nella tranche genealogica danno un ammontare di 986 anni che sommati al 989 a.C. indicano la generazione di Abramo nel 1975.

Poi, sapendo che da Abramo a Ragau corrono 4 generazioni di 74 anni, sommeremo al 1975 296 anni per ottenere il 2271 a.C. generazione di Ragau, il Patriarca che iniziò i lavori alla torre stando al Libro dei Giubilei. Adesso, quindi, siamo in grado di conoscere l’anno in cui la costruzione della torre ebbe inizio, sebbene con una datazione che oscilla tra il 2271 a.C. e il 2197 a.C.

Della Torre di Babele ce ne siamo già occupati in un post che proponemmo quasi per gioco il cui risultato, però, ci sorprese in quanto coincidente con gli studi di Fernand Crombette, che molti conoscono. Infatti noi sommammo, per gioco, i capisaldi dell’attuale cronologia dei Re con il primo anno di regno di Ciro, datazione assoluta, sommammo cioè 1031+587+559 quando la prima cifra indica il primo anno di regno di Saul; la seconda la fine della dinastia davidica (esilio babilonese) e la terza il primo anno di regno di Ciro.

Queste date sono il caposaldo accademico per la storia del Vicino Oriente Antico e non sono nostre. Ecco, la loro somma ammonta a 2177 che è, nell’ottica di una datazione doppia (2177/2178), perfettamente coincidente a quanto a suo tempo ha affermato Crombette per la costruzione della Torre di Babele (2178 a.C.), quando invece, come vedremo, è più opportuno dire che fanno luce sulla sua distruzione e l’insorgere della Babele delle lingue, come narra la Bibbia

Infatti abbiamo che se togliamo al 2271 a.C., anno della generazione di Ragau, Patriarca che dette inizio ai lavori alla torre, il 2178 a.C. otteniamo che passa poco più di una generazione se le generazioni tra Abramo e Noè (Nochè)  si compongono di 74 anni esatti, come abbiamo illustrato sopra. Infatti 2271-2178=94 e questo colloca quel 2178 indicato da noi e da Crombette nella generazione di Seruc, esattamente nel ventesimo anno di quella generazione.

Questo è molto importante perchè significa che i nostri calcoli non vanno oltre la sequenza descritta dal Libro dei Giubilei che indica in Ragau il fondatore della torre; in Seruc il suo crollo, per cui quei 94 anni di differenza che si generano tra il calcolo generazionale (2271) e il calcolo fatto da Crombette e noi ((2178/77) rispettano, non sforando le due generazioni di Ragau e Seruc, l’ordine dei fatti descritto dai Giubilei.

Infatti, come abbiamo consigliato di leggere wiki per Ragau, adesso consigliamo la lettura, aprendo il link (vedi sopra), di Seruc , dove si legge che nella sua generazione avvenne la confusione delle lingue di cui parla la Bibbia. Infatti è proprio in Seruc che la confusione prende corpo, perché il suo nome proprio conduce a un “gioco di parole intraducibile”, come scrive wiki, tanto che s’incolpa un fonema, ma in realtà quel gioco di parole intraducibile tradisce e traduce quanto in realtà accadde a Babele in quegli anni, quando ” Ora, figlia di Ur e nipote di Kesed,…gli mutò il nome originale Seruh in Serug” testimoniando una confusione delle lingue, tanto che ne fece le spese Saruc stesso di cui, a tutt’oggi, non sappiamo dare ragione neppure del suo nome.

Non è solo, quindi, una sequenza di calcoli che individuano se non un anno certamente una generazione, ma è la sequenza di generazioni (Ragau-Seruc) che conferma, alla luce del Libro dei Giubilei, quanto accadde all’ombra della Torre di Babele. Quel 2178/77 a.C individuato da Crombette e da noi cadono in un contesto che prima si fa cronologico (generazionale); poi genealogico e infine s’inseriscono tra le pagine del Libro dei Giubilei la cui narrazione conferma tutto.

Non siamo in grado di dire con esattezza quando la costruzione della torre ebbe inizio, ma siamo certi della sua fine, come certo fu Crombette giunto alla nostra stessa conclusione: il 2178/2177 a.C. l’anno in cui Babele crollò non sotto il peso della sua portata, ma a causa del numero delle lingue che la costruivano.

Noi ci siamo arrivati sommando i capisaldi della cronologia attuale del Vicino Oriente Antico, quella che da sempre denunciamo assolutamente falsa, tanto che se Saul è il capostipite della cronologia dei Re, segnata alla sua fine nel 587 a.C., siamo in grado di dire che, data la sua assoluta falsità, nessun altro poteva esserne re che Ciro, quel Ciro necessario alla somma che compone il 2177 (1031+587+559=2177). Solo lui poteva essere re in una cronologia frutto della menzogna più spudorata. Ma non è una novità.

Casomai è una novità che quel sogno folle di conquista del cielo non sia svanito, perché il mondo accademico, diffondendo quella cronologia assolutamente falsa, partecipa del sogno di Nimrod e con esso parteciperà alla sua rovina. Un sogno folle che si tramuterà in incubo, perché il protagonista è colui che, se letto a rovescio, si presenta come dormi(N) e lo sappiamo da Einstein che “il sonno della ragione genera mostri” , curiosamente titolo del tema della mia maturità, che a ormai cinquantatré anni vorrei sostenere di nuovo, visti gli argomenti e la maturità, cose che mi farebbero concludere il tema con un laconico: “E’ vero, proprio vero, chapeau!”

 

La storia che non siamo noi

Nimrod_(painting)Un errore sarebbe forzare i numeri, mentre è giusto trovare in essi le relazioni nascoste ma solo se osservate nel particolare, perché una cronologia, se tale, cioè di respiro, è sempre universale e si rivela alla distanza.

La Bibbia, inoltre, gode dell’appellativo “sacra” e questo ci introduce quasi in un gioco di ruolo dove i protagonisti sono i numeri, cioè le cifre che compongono quella cronologia, dove ognuna ha il suo potere ed è inserita in un contesto che non è magico, lo abbiamo scritto, ma sacro che in fondo meglio

Ecco allora che quegli altari della storia terminano vicini a noi, se il futuro prossimo è già storia nella misura in cui la si può intuire, perché il 2020 è davvero alle porte, dopo il suo lungo viaggio a tappe (497 anni) iniziato con Davide, nel 1012 a.C  per la precisione; passando poi per le fondamenta del secondo tempio (465 a.C.); poi per il ministero pubblico di Gesù (32 d.C.) e da lì alla caduta dell’Olimpo (529 a.C.) e un a noi ignoto 1026; confluendo in seguito nel 1523 di Lutero e da lì a noi al 2020.

Questi sono gli altari della storia che abbiamo conosciuti e che segnano le epoche in cui la cronologia si esercita nella sua funzione: ordinare la storia che essi contengono. Ma non esiste solo quest’ordine nella cronologia, perché come è articolata la storia umana altrettanto lo è quella biblica e la sua cronologia, tanto che Giovanni ci parla di un’altra metrica nella sua Apocalisse ed essa sono i 1260 giorni (Ap 11,2) che noi applicheremo al nostro altare, cioè a quello a noi più prossimo, il 2020, sottraendo proprio 1260 giorni/anni per cadere nel 760 e da lì, non conoscendo quella storia, tolti altri 1260 giorni/anni, al 500 a.C. che invece lo conosciamo benissimo.

Quei 1260 giorni/anni sono quelli in cui Gerusalemme sarà calpestata (Ap 11,2), Gerusalemme città santa data in pasto ai gentili e infatti, fateci caso se siete in possesso delle nostre coordinate cronologiche, che il calcolo che abbiamo appena fatto cade nel 500 a.C. cioè nell’ultima deportazione babilonese (vedi tabella) dopo quella del 505 a.C. e da questo si capisce che se nel 505 a.C. Gerusalemme cadde, nel 500 a.C. fu calpestata perché ormai era in balia della storia, a cui non era in grado di opporre neppure una resistenza morale facendo appello del suo passato.

Dunque quei 1260 anni che segnano il Cortile esterno dato ai gentili ci ha condotto alla città di Davide ormai nella sua miseria, incapace di qualsiasi reazione e per questo persino calpestata dalle genti.

Quel Cortile dei gentili che Giovanni non chiede di misurare è la storia di una città che diviene metafora, perché in essa si consuma la storia dei Gentili, quella ben distante dalla storia universale e sacra contenuta nel ναός, luogo santo e sacro, come la storia che in se stesso racchiude, perché come Dio partecipava del ναός, così quello stesso Dio partecipa della storia umana che non è più, paradossalmente, dell’uomo ma progetto di salvezza, via alla felicità che procede da Dio e non da noi.

L’architettura del tempio, in quei suoi edifici principali (ἱερός e ναός,) sono la storia tutta: quella umana e quella divina, come sono due le vie alla salvezza procedendo l’una dall’uomo che ne fa luogo mercato e “spelonca di ladri” (Lc 19,46), l’altra da Dio che ne fa preghiera .

Nel post precedente abbiamo visto che il cavallo verde segna un movimento che nasce dall’uomo e con l’uomo è destinato a finire o, meglio, a finire come l’uomo: la morte, che non a caso cavalca il cavallo verde. Abbiamo detto che i versetti tradiscono la storia nella sua più sintetica espressione: la cronologia e dunque quel versetto 6,8 di Apocalisse fu, non caso, il ’68 che ha segnato indubbiamente un’epoca, ma non ha capito la dimensione divina della storia, tanto che ha confuso il potere con il Potere, cioè quello dell’uomo con quello del Maligno  a cui soggiace tutto il mondo, come scrive sempre Giovanni (1Gv 5,19).

La storia che ha scritto il ’68 è una storia “storica”, cioè frutto dell’uomo e per questo s’inserisce nel Cortile dei gentili, perché ai gentili appartiene e si rivolge quella storia, tanto che non fu e non è divina, ma frutto di una semina che non chiama alla mietitura, ma a una violenza “levatrice” per dirla con il suo ideatore, Marx.

Curioso diviene allora l’occorrenza di quel ἱερός che è l'”area del tempio” Cortile compreso, in ogni caso qualcosa di esterno al ναός, al luogo sacro e dunque alla storia storia sacra, perché progetto divino. Tale occorrenza è 68 come il ’68 è l’anno che segna, verosimilmente, l’ultima tranche di una storia progetto dell’uomo che si fa architetto, non potendo essere Dio ed ha costruita la sua torre, la sua storia, sfidando il cielo come Nimrod.

Come in tutte gli altari che si sono succeduti ci sarà aspra battaglia tra “vecchio” e “nuovo” cioè tra gli ultimi fedelissimi assertori di una storia “uomo” e coloro che vorrebbero riportare Dio sulla terra, cioè nella  storia. Ciò è inevitabile: l’inveterata opinione che l’uomo ha di se stesso come artefice del proprio destino, nonché della via alla felicità, a un paradiso de noantri, non cederà spontaneamente il passo a Dio, tanto che al campo di battaglia si è dedicato un inno, piucché una poesia, cioè “Padre nostro che sei nei cieli restaci” (Prévert) cosa che farà, ma non per molto: la storia è Sua, belli, e la rivuole indietro.

A cavallo nella storia

Che cosa sappiamo dei cavalli di Apocalisse se non che il loro trotto disegna una lamed come abbiamo evidenziato in questo post e nell’immagine inserita? Forse non sappiamo che i versetti non sono semplicemente tali, ma mascherano, come tutti i casi raccolti nella categoria omonima, una cronologia, in questo caso del loro trotto che dal ’59 giunge al ’68 seguendo trienni come ostacoli di un campo di gara? Siamo certi, però, che altro non si celi dietro ai colori e ai cavalieri, ad esempio?

Partiamo da quest’ultimi e occupiamoci per prima cosa del quarto cavallo, quello verde che è cavalcato dalla morte (Ap 6,8) e che subito c’inserisce in un contesto umano se il Cristo, cioè il divino, è resurrezione, Pasqua non a caso, visto il calendario. Dunque quel cavaliere e quel movimento, che noi azzardiamo associarlo al ’68 sulla scorta del versetto che lo indica, fu impresa umana perché lo caratterizzò la morte, cioè la finitezza di una storia che nasce e si sviluppa con l’uomo, distante dall’eternità o dalla storia eterna, quella che è apparsa ai nostri occhi come gli “altari della storia“, non più materialialismo, quindi, ma divina.

Infatti, nello storicamente piccolo ruolo che forse ha avuto il ’68 rientra il suo veemente attacco a ciò che era potere e autorità, ma un potere e un’autorità umana, politica e sociale, tanto che a quel movimento sempre è sfuggito -e sfugge- che il mondo non giace sotto il potere dei potenti, ma del Maligno (1Gv 5,19)  per stessa ammissione di colui che ha scritto anche Apocalisse, Giovanni, a cui va riconosciuta imparzialità se abbiamo ragione e quel versetto 6,8 è il ’68.

Non a caso, in esso, tutto è divenuto semplice protesta da quella Lotta Continua promessa, per poi miseramente esaurirsi in quella parabola che ben descrissero sin dalle origini i cartisti inglesi: l’imborghesimento che ne ha fatto semplicemente dei nuovi padroni, da prodromi della rivoluzione permanente che come tutte le rivoluzioni ha divorato i suoi figli, perché da Cesare si giunse a Cesare Augusto; dalle Leggi anti-magnatizie fiorentine a Cosimo I;  dalle comuni a Napoleone;  dalla Rivoluzione di ottobre a Stalin e dalle piazze sessantottine si è giunti… vorrei dire a cosa, ma è ancora presto per qualificarne l’inevitabile deriva autoritaria che immancabilmente elegge il suo duce concentrando il potere dopo i bagordi. Parabola tipica di tutto ciò che nasce umano e si fa storia, anch’essa umana e per questo è cavalcata dalla morte che segna ogni movimento che alzi il suo vessillo, perché altra rispetto a quella eterna di cui ne ignora il progetto, anche se inconsapevolmente ne fa parte.

Ben diverso quando un movimento esplora il divino e comprende per prima cosa che il mondo giace sotto il potere del Maligno, lui solo Potere, tutti gli altri, al massimo, hanno autorità e risultano solo comparse più o meno rumorose. La sfida vera, dunque, è al Maligno non all’avversario politico ingaggiato in una lotta di classe che veramente appare una zuffa tra liceali.

Un maligno che certamente abita la storia che si fa città, cioè luogo fisico: Babilonia, l’arcinemica per eccellenza del popolo di Dio, perché Babilonia delle religioni, quando il, Cristo, protagonista assoluto della rivelazione, ci ha parlato dell’unico e vero Dio (Gv 17,3) e conseguentemente dell’unica vera storia, quella eterna, che non possono assolutamente coesistere con le divinità pagane di un pantheon babilonese. L’idolatria connessa a Babilonia ne fa l’espressione multi-etnica e multi-culturale di una religiosità sfida, sfida all’unicità di Dio e alla sua onnipotenza, se costretta a condividere la storia.

Ecco allora che entra nella scena il cavallo nero al versetto 6,5 che noi interpreteremo fisicamente come ’65. Quel cavallo è nero è nero come la notte, quella stessa in cui fu pesato Baldassàr e fu trovato mancante (Dn 5,27) e per questo, in quella stessa notte, “Dario il medo ricevette il regno” (Dn 5,30), cioè Babilonia cadde sotto il colpo di mano di Dario I.

Noi conosciamo quell’anno e fu il 486 a.C. quando finì anche il ministero profetico di Ezechiele. Cadde Babilonia perché fu pesata e trovata mancante e per questo quel cavaliere ha in mano uno ζυγός (Ap 6,5, bilancia) e ci parla di misure esatte tanto che esatta è anche l’identità tra la bilancia che impugna al posto della spada e l’anno della caduta di Babilonia, perché ζυγός. ha un valore ghematrico di 486, come nel 486 a.C. cadde Babilonia.

Una Babilonia metafora di una storia pesata e rivelatasi anch’essa mancante e dunque, proprio perché ne esprime il peso, falsa, poichè quel 486 che indica la sua caduta e la ghematria di ζυγός sono identici al valore di Υἱός (Figlio maschio, Ap 12,5) che (ri)nascendo rinnova la storia ristabilendo la giusta misura, in questo caso riportando la storia alla sua genesi esatta, cioè quella biblica. Infatti il 486 a.C. è l’antagonista di un 567 a.C. che data lo stesso evento, ma dall’osservatorio astronomico babilonese, non biblico che invece osserva l’eclissi descritta dal VAT 4956 nel 486 a.C., trentasettesimo anno di regno di Nabucodonosor e non  nel 567 a.C..

Tutto questo oppone la Sapienza biblica, espressa dalla cronologia del testo sacro, alla scienza che vorrebbe, di quel 567 a.C., farne valore assoluto, caposaldo inespugnabile, mastio babilonese dove organizzare la resistenza alla storia tutta dopo averne inventata una sua di storia. Appare così, dalle possenti mura scientifiche babilonesi, un personaggio che è simbolo stesso della grande impostura da tutti attesa, ma già in atto: Ciro che la Bibbia mai ha (ri)conosciuto come re, organizzando essa stessa una resistenza nelle sue pagine, tanto che a un esame attento emerge la verità e Ciro appare in tutta la sua falsità, facendo di  Babilonia la nemica della fede, della ragione e della storia.

Quelle misure esatte che caratterizzano il “cavaliere nero” altro non sono, allora, che una storia ritornata nel suo alveo naturale, cioè alla sua sacralità, che ha per questo disseccato alle radici il politeismo babilonese, protetto dalle “grandi acque” (Ap 17,1), migrate però altrove adesso, magari perché deviate, come avvenne per la conquista della Babilonia storica.

Una storia che dunque ritorna eterna e ristabilisce il culto, l’unico in verità, rivelando tutta l’aridità spirituale che in realtà caratterizzava Babilonia delle “grandi acque”, delle genti e delle religioni con i suoi non giardini pensili, ma divinità sospese, cioè senza radici o al massimo immerse in una soluzione  dal ph fortemente idolatrico.

Ecco secondo noi il “cavaliere verde” e il “cavaliere nero” oltre il simbolo, perché inseriti nell’arcobaleno della storia simbolo di quell’Alleanza che ha scritto la storia e a cui solo gli sciocchi si oppongono desiderando un mondo oppresso dal maligno e governato da Babilonia la Grande, sì, ma grande prostituta come la storia che ci ha tramandata.

“Nani”, “giganti” e fenomeni da baraccone

baracconeParlare dei Padri del deserto mi serve, mi serve perché introducono in un mondo ben oltre quello di Carroll che ci ha descritto la meraviglia, sebbene sia ancor più  meraviglioso comprendere il dramma di un’epoca nelle pochissime righe di apoftegma come nel caso di Macario il Grande. Come è meraviglia la vita di Arsenio che andò ben oltre il muro del suono culturale divenendo precettore di imperatori, quando oggi parrebbe gloriosa conquista da tramandare, raccomandandola, ai posteri una cattedra sporca, maledetta e subito. Eppure, Arsenio, giudicò un nulla le cose del mondo sebbene il mondo lo avesse conquistato educando il futuro dell’impero, ma scelse il deserto, cioè il Vangelo.

Sì è una meraviglia quel deserto ospitale che ti tiene sulle spine davanti a quella cella di cui nega l’ingresso spesso con l’apparente follia. Ne sa qualcosa un potente che chiese ai quattro venti dove fosse il famoso Padre e loro gli riposero che era là, perso tra i suoi rami di palma.

Ma fu meno veloce del vento a raggiungerlo e il padre venne a conoscenza della visita e ‘imbandì un lauto pasto davanti alla sua cella. Alla vista di tutto ciò il potente se ne andò disgustato senza non solo toccare cibo -cosa che avrebbe dovuto assolutamente fare- ma senza neppure rendersi conto che il deserto si era preso gioco di lui.

Insomma c’è anche da ridere, ma non sempre perché Giovanni il Nano c’insegna come affrontare il demonio. Infatti durante una sua lezione (apoftegma n. 8 Ed. Città Nuova) un altro padre fu preso dall’invidia e gli rinfacciò che il suo calice fosse pieno di lordura. Quel calice era l’anima di Giovanni e l’offesa fu tremenda perché pubblica. Noi non potremmo mai ricevere un epiteto tale o se lo ricevessimo la nostra reazione sarebbe il giustificarsi, forse addirittura l’aggredire.

Giovanni, invece, replicò dicendo che il suo giudizio era addirittura benevolo, perché se avesse visto l’interno del calice (dell’anima), invece che solo l’esterno, avrebbe detto ben di peggio. Non si gonfiò d’ira, non fece appello alla dignità e neppure fece causa per diffamazione: si accusò ancor di più. Atteggiamento che molti troveranno remissivo, pavido persino vile ma l’unico valido.

L’attacco era stato sferrato per invidia, come dice l’apoftegma, dunque proveniva dal demonio e l’unica risposta era non gonfiarsi d’ira, né d’orgoglio, tanto  meno fare appello propria dignità. La carne che esse rappresentano avrebbe costituito un bersaglio su cui i denti velenosi della vipera avrebbero fatto presa, avvelenandolo prima; ingoiandolo poi e senza versar una goccia di sangue perché il serpente ingoia le sue vittime vive e senza versare sangue.

Insomma Giovanni non seguì l’esempio del rospo che se attaccato dal serpente si gonfia a dismisura (ira, orgoglio, rabbia) ma si fece piccolo, cioè “nano” come il suo appellativo che forse dipende proprio da questo episodio. Sfuggì così al morso del serpente che prima lo avrebbe immobilizzato col veleno, che non era nel suo calice ma nella lingua invidiosa del suo interlocutore, e poi ingoiato.

E’ una lezione che vale per tutti: non pensiate di affrontare il demonio con i pugni, le parolacce o, Dio ve ne guardi, le pistole: sareste suoi in un attimo, partecipando al cenobio delle patrie galere e dei manicomi o CSM che dir si voglia (vi prego di notare l’identità di sigla con il Consiglio Superiore della Magistratura che evidenzia una salute mentale di legge, immancabilmente la loro), i quali, specie i CSM, altro non sono che i guardiani del faro culturale che si erge sull’enorme montagna maleodorante di spazzatura del sapere attuale, in primis l’esegesi cattolica, salvo rare, disgraziate e infelici oasi di buona fede.

La menzogna sempre si arma, ma se proviene dal serpente non spara, se non con il taser della calunnia che immobilizza la vittima senza che si sparga una goccia di sangue, perché il demonio è o non è il non violento ante litteram? Certo che lo è, come è certo, giusto per uscire dalla metafora offerta dal mondo animale, che abbia mani enormi che se vi catturano non avete scampo, ma se vi fate piccolissimi come il granello della senape  evangelica (Mt 4,31) o Giovanni, non a caso il “nano”, non riuscirà ad afferrarvi: troppo grosse le dita di quelle mani e troppo piccolo il cervello che le istruisce e le ha istruite, per cui dovrà schiacciarvi versando sangue, quando avrebbe preferito di gran lunga prendervi con delicatezza e sbattervi o in galera o al CSM, magari in vista di una cristianissima e amorevole “correzione fraterna”, proclamata urbi et orbi con una sola lingua ma due estremità, tanto che a coloro che hanno buon udito sarà facile intuire una giustizia espressa con sentenza sibilo.

Gli ultmi giorni dell’Olimpo

Ci siamo dedicati agli altari della storia seguendo una metrica che affiora dalla cronologia biblica, sebbene scaturisca dal profondo della sua storia. Una storia che con la cronologia trova la sua sistemazione, ordinata com’è per contenuti e “contenitori”. Quella metrica dei 497 anni che ci ha tenuto compagnia negli ultimi due post appartiene a quest’ultimi, perché quei “loro altari” (מזבחתם) segnano le grandissime epoche storiche capaci di contenere le singole tranches cronologiche.

Abbiamo visto, infatti, che dal 1012 a.C. si giunge, sommando 497 anni, al 515 a.C. che segna la fine del giudaismo del primo tempio, nato con Davide (1012 a.C.), l’anno in cui uccise Golia divenendo lui re nel cuore della gente come testimonia il grido di esultanza delle donne

Saul ha ucciso i suoi mille,
Davide i suoi diecimila (1Sam 18,7)

Poi, scalati gli anni dell’esilio, abbiamo sommato altri 497 anni al 465 a.C., anno in cui si gettano le fondamenta del secondo tempio, e ottenuto il 32 d.C. che segna, secondo noi, l’inizio del ministero pubblico di Gesù non a caso nuovo ναός (Sancta Sanctorum, Gv 2,20).

In seguito il nostro sguardo è andato ben oltre il dopo Cristo individuando il 529, in cui si consuma il dramma del mondo classico che crolla con Giustiniano, il quale chiude l’Accademia filosofica di Atene, segnando non solo la morte della filosofia, ma il crollo dell’Olimpo, cioè degli dei che, per dirla con Dante, erano divenuti “falsi e bugiardi”.

Ci siamo fermati qui, troppa è la storia e troppa e la cronologia che abbiamo affrontate per estendere il panorama della ricerca, ma dispiace perché se al momento, tacendo il web,  non siamo in grado di dare ragione del 1026 che si raggiunge sommando il 497 al 529, siamo però in grado di accennare al 1523, quando Lutero pubblica Come si devono istituire i ministri della chiesa che per molti fu una rivoluzione.

E da ultimo non che  dispiaccia, ma incuriosisce quel 2020 che dal 1523 si raggiunge sommando altri 497 anni raggiungendo i nostri giorni. Per il passato siamo passibili di negligenza, se non lo studiamo, ma il futuro, sebbene prossimo, è oltre le nostre possibilità e non siamo passibili di niente: vedremo.

Ma non è di questo che voglio parlare, perché a me davvero ha colpito quel 529 d.C. che segna il crollo dell’Olimpo e la morte della filosofia che lo aveva giustificato come sovrastruttura, direbbe Marx, cioè proiezione di quella stessa  “economia filosofica” che era la fucina del vivere e sentire civile e religioso.

S’imputa a Giustiniano la più classica delle critiche: oscurantismo, dittatorialità e prevaricazione del più sacro dei diritti riconosciuti al momento: la cultura, per cui la messa al bando della filosofia rappresenta a tutt’oggi l’atto sacrilego per eccellenza, intrisi come siamo di “culturismo”, tanto che l’istruzione giustifica un doping educativo che gonfia a dismisura il valore delle capacità intellettuali di cui fare sfoggio, perché la cultura è l’unica vera disciplina umana.

Giustiniano, quindi, è un mostro, quasi un perfido nano culturale che in un impeto d’invidia uccide per mancanza di argomenti e di ragione, in una parola di cultura, e per questo ricorre alla brutalità della legge, alla sopraffazione, al sopruso e, immancabilmente, all’ignoranza. Esercizio facile facile per atleti multi-culturistici: il ring, ormai, è lontano nel tempo e l’avversario defunto, persino dalla storia che “male” lo ricorda.

Tuttavia, io credo, che manchi sempre un pugno di terra per seppellire la verità, la quale lascia sempre dietro di sè le tracce per rinvenirla, affinché il corpo del reato sia visibile e repertabile dalla giustizia, sebbene storica. Ecco allora che appare non solo una metrica indefettibile a far luce (497 anni) e a dirci che, ad esempio, il materialismo storico è quanto di più distante dalla realtà, in primis storica; ma compaiono anche folli personaggi che giungono dal deserto a descriverci la realtà dei fatti.

Uno di questi è certamente Macario l’egiziano o Macario il Grande di cui abbiamo già parlato e che testimonia, con quelle mummie greche di cui ha fatto cuscino per la notte, una vita apparente della filosofia negli anni tra il 300 e il 390. Infatti se la storiella voleva mostrarci il coraggio di Macario, capace più di noi di dormire con una mummia sotto la testa, perché premurarsi di dirci che era greca? Che importanza ha conoscerne la provenienza? Io credo nessuna nell’economia dell’apoftegma, per cui se viene specificato che era greca l’apoftegma assume tutta un’altra luce e da storielle dabbene diviene testimonianza.

Testimonianza di una vita apparente di quelle mummie, cioè dei filosofi, che ancora insegnavano in quelle che, alla luce dell’apoftegma, appaiono enclaves culturali ancora disponibili ad ospitarli, sebbene ormai incapaci di fare, paradossalmente, scuola. Il pensiero, infatti, era migrato altrove come colomba, perché lo Spirito Santo, di cui la colomba è simbolo, aveva rivelata la Verità e dunque tutto ciò che era filosofia era falso e bugiardo, come gli dei che quella filosofia aveva legittimati.

L’attestazione di un solo Padre del deserto potrebbe essere poca, poca l’autorità ma che ne è se Arsenio, Arsenio anche lui il Grande, come Macario, testimonia la stessa versione dei fatti? Non era forse, Arsenio, precettore d’imperatori? Non era il campionissimo della classicità? Come mai allora rinuncia a tutto, cioè rinuncia a alla sua enorme cultura classica, per ritirarsi nel deserto? Crisi spirituale?, Mistica? Depressione, come diremmo oggi? O Forse indice di un clima culturale che aveva convertito i vertici più alti non della gerarchia sociale, ma culturale nei suoi massimi esponenti.

Se in Arsenio la classicità cede il passo al Vangelo, quali ne sono le ragioni? Possibile che un uomo di tale cultura scelga il Vangelo al posto di Platone e Aristotele? Essi non sono forse i maestri insuperati del pensiero filosofico a tutt’oggi? Come mai l’ieri li ha messi da parte con il campionissimo culturale Arsenio che non “fuggì gli uomini” come si dice in un suo apoftegma, ma ciò che gli uomini avevano prodotto, cioè la filosofia che gli apparve in tutta la sua umanità a lui che cercava il divino.

Sin dalla sua prima lettura mi ha colpito che “un uomo di quella cultura”, come diremmo fieramente oggi, si sia addentrato nel deserto profondo certo che se parli con e degli uomini non parli con e di Dio. Arsenio, proprio perché uomo di cultura, ha perfettamente intesa la Rivelazione che pone fine alla ricerca mettendo nella soffitta della storia la filosofia e dunque il pensare umano come ricerca.

Macario e Arsenio, i Grandi, ci hanno dunque tramandato a loro modo un’epoca che non uccise proditoriamente la filosofia in un impeto d’ignoranza, ma uccise e seppellì l’ignoranza in un impeto di di ragione e di fede, quella stessa che era stata rivelata e che era destinata a istruire il mondo immerso nelle tenebre, curiosamente, dell’ignoranza.

Giustiniano, quindi, chiudendo l’Accademia filosofica pose solo la parola fine a ciò che già di per sé era finito, finito perché umano e finito perché aveva esaurito la sua funzione. Il: “Basta, seppellitela!” di Giustiniano ha solo posto fine a uno strazio, magari al fine di non incorrere nella giustizia storica per vilipendio di cadavere, perché anch’essa lo riconosce reato. Per questo  va dato merito a Giustiniano: paradossalmente il suo ordine fu un esercizio di quella pietas che aveva caratterizzato la classicità e nient’altro.

Figura da rivalutare, Giustiniano, come da rivalutare sono i Padri del deserto, spesso definiti “grandi” e grandi lo furono veramente, ma non perché fu in loro potere far tremare gli dei, ma perché dopo averlo fatto rientravano nella loro cella e non a corte. Sì, erano grandi, grandi davvero.